23 maggio: Una ricorrenza tra sangue e ricordi

PALERMO – Il 23 maggio, un numero, una data, una ricorrenza che ogni anno da quell’ormai lontano 1992 torna a scuotere gli animi, scolpendosi nel ricordo di chi ha creduto fermamente nel Giudice Falcone e nella sua lotta per la legalità, lotta mai vana, a dispetto del triste epilogo cui andò incontro, quando in un pomeriggio qualunque saltò in aria in quel lembo di autostrada, che da Punta Raisi portava a Capaci, insieme alla moglie Francesca Morvillo e all’intera scorta, assegnatagli quando l’espressione “Guerra di Mafia” aveva iniziato a pigmentarsi di tratti intimidatori e a caricarsi di una valenza più efferata, per non dire brutale, dopo la dichiarazione di guerra a “Cosa Nostra” e ai suoi affiliati, i Corleonesi.

All’epoca la Mafia agiva indisturbata, in pieno giorno, avanzando come un “boia invisibile” dal passo sicuro e diretto verso il suo unico obiettivo: “farsi giustizia da sé”, inteso in tutte le sue molteplici sfaccettature; la misteriosa “Civetta” di Sciascia, che paradossalmente in Sicilia veniva avvistata di giorno invece che la notte. Un enigma, questo, ormai svelato da tempo, per il principio che “tutti sanno, ma niente vedono”, messo in pratica dall’omertà che contraddistingue il Siciliano reticente e compiacente e che si traduce pedissequamente nel famoso detto “Nenti sacciu e nenti viu”! Al tempo di Totò Riina e Bernardo Provenzano, la Mafia disperdeva tracce concrete del suo passaggio; dapprima solo gesti intimidatori di qualche giovane tracotante e baldanzoso, che tutti i timorati chiamavano “il Boss”, in segno di obbedienza e di rispetto; più tardi, invece, cominciarono a comparire i primi cadaveri, manifestazioni concrete di un “insediamento criminale” sul territorio, cadaveri il cui numero crebbe vertiginosamente negli anni ’90. Date le premesse, il “delitto di mafia” veniva riconosciuto quasi come un “marchio di fabbrica”, per cui in che altro modo poteva essere definita “Cosa Nostra” se non la “Fabbrica degli orrori”? Essa puntualmente coltivava malaffare e sfornava cadaveri; e tutto veniva fatto scorrere meccanicamente sul “nastro trasportatore” dell’ignoranza e della connivenza, anatemi che iniziano alla “Malavita”; un modo alquanto macabro e triviale di voler affermare il proprio potere, quasi a volersi fare beffa dello Stato e della giustizia, che silenziosamente aveva già cominciato a seguire il suo corso. Per noi Siciliani questo giorno del calendario è una ricorrenza che non può lasciarci impassibili! Non possiamo non prendere coscienza del fatto che “i Grandi siano esistiti e che le loro idee restino”; perché le idee restano e devono essere portate avanti con ardore e convinzione, lasciandoci finalmente alle spalle quell’atteggiamento omertoso che, non solo per definizione, tende ad accomunarci. “La Mafia è una vicenda umana e come tutte le vicende umane ha un inizio e una fine – sosteneva fermamente “il Giudice”, per cui di un’eredità confinata nel “forziere del ricordo” e all’ombra del sacrificio di chi ha voluto destinarcela e per una buona causa, non abbiamo proprio che farcene; se non altro avremmo bisogno di gambe forti, agili e spinte dallo stesso ideale di giustizia, gambe che possano dare un corpo a quelle “idee” di una legalità sacra, viva e sanguinante, proprio come “i resti dilaniati” di chi ci ha creduto davvero, facendo non uno ma due, tre, quattro, cinque, dieci, cento passi.

Marika Anzalone


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