“Ciuri” e le canzoni d’amore siciliane

Nella Sicilia d’altri tempi il canto sembrava innato in ogni persona; infatti, cantavano un po’ tutti: l’artigiano nella sua bottega, i ragazzi per strada, la casalinga mentre tesseva o accudiva alla casa. Chi cantava era sempre il popolino, sia pure oppresso dal lavoro pesante e dai mille problemi quotidiani da risolvere.
Mi fa piacere ricordare che le canzoni siciliane di quei tempi avevano una melodia arabeggiante; certamente la lunga dominazione araba in Sicilia aveva lasciato una traccia indelebile anche in questo campo. Nel libro “il Gattopardo” l’autore, T. di Lampedusa così scrive: -“…cantavano alcune strofe della “Bella Gigogin” trasformate in nenie arabe, sorte cui deve assuefarsi qualsiasi melodietta vivace che voglia esser cantata in Sicilia”.
Intorno al 1800 sorse fra le persone del basso ceto sociale un genere di canzone chiamato “ciuri”. Si trattava di stornelli d’amore in cui era invocato, come simbolo, un fiore. Quando si trattava di un amore desiderato ardentemente, ma contrastato o sfortunato, si citava generalmente il fiore d’arancio, di gelsomino o di rose rosse; quando si trattava di un amore andato male, con sentimenti di fiero odio e disprezzo, si citava il fiore d’aloe o di canna. La più nota canzone di questo filone è “ciuri ciuri”.
Molto sentimentale e folcloristica era la serenata, che l’innamorato faceva di notte alla sua bella, al chiar di luna, Erano canti d’amore ricchi di lusinghe e sentimenti avvolti dal fascino della musica. Si cantavano canzoni d’amore anche in campagna in occasione della vendemmia e della raccolta delle olive, con canti collettivi o di solisti con voce tenorile per farsi notare dalle ragazze presenti. In un famoso brano: “La vinnigna”, una ragazza innamorata considera la vendemmia come “la staciuni di l’amuri” (la stagione dell’amore), perché, assieme al carnevale, erano le uniche occasioni per una ragazza di allora, di potere uscire di casa e avvicinare un giovane e sperare così nel matrimonio, il massimo che la vita le potesse offrire.
Nella nota canzone “Vinni la primavera” (è arrivata la primavera) si nota la sofferenza di Rosa che, rinchiusa in casa seguendo la morale della civiltà contadina maschilista, guarda attraverso la porta messa a “vanidduzza” (socchiusa) se passa qualche giovane spasimante e sogna e soffre perché il “Focu d’amuri lu cori m’addumò” (fuoco d’amore il cuore mi ha acceso).
Allora, per una ragazza, l’unico scopo della sua vita era il matrimonio ed avere tanti figli; perciò, spesse volte, essa passava le sue giornate a prepararsi il corredo ed a sognare il principe azzurro.


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