Poesia e dintorni – La Metrica Seconda Parte

di Tino  Traina.

Abbiamo definito il verso come l’unità di misura del testo poetico, mettendone in evidenza, come elementi fondamentali, la struttura sillabica ed accentuativa. Abbiamo però finora guardato al verso come entità singola, a sé stante. E’ necessario adesso considerare il verso nei rapporti che esso contrae con gli altri versi del testo poetico. Già nella prima parte di questo articolo sulla metrica, avevamo parlato di due figure metriche, l’episinalefe e la sinafìa, che intervengono a pareggiare il conto sillabico di versi ipèrmetri e/o ipometri in successione. L’ipermetria o l’ipometria vengono evitate con l’episinalefe mediante la fusione, in un’unica sillaba, della sillaba finale di un verso con la prima del verso successivo iniziante per vocale:

“ch’ora si rompono ed ora s’intreccia-no

a sommo di minuscole biche”.

I versi 7°e 8° del componimento montaliano “Meriggiare pallido e assorto”, offrono un esempio di episinalefe, in quanto il primo dei due versi è un endecasillabo sdrucciolo la cui 12ª e ultima sillaba va nel computo delle sillabe del verso successivo per fusione con la vocale iniziale di quest’ultimo. La sinafìa interviene a pareggiare il conto sillabico, evitando l’ipermetria, inserendo la sillaba finale di un verso nel computo sillabico del verso successivo, in questo caso iniziante per consonante e non per vocale come per l’episinalefe:

“dei fulmini fragili resta-no

cirri di porpora e d’oro”.(Pascoli – Canti di Castelvecchio – La mia sera vv.19-20).

Ora è necessario precisare che il verso non è soltanto sillabe ed accenti, ma piuttosto entità complessa di un rapporto tra struttura metrica e struttura logico-sintattica. Queste due strutture possono coincidere o presentarsi sfasate, derivandone effetti significativamente diversi. Esaminiamo, a tale scopo, da “L’infinito” di Giacomo Leopardi i primi due versi:

“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte”

Si nota subito che mentre il primo verso può essere considerato una frase completa, in cui cioè la struttura metrica coincide con quella logico-sintattica, non così possiamo dire per il secondo verso che rimane come sospeso e necessita, per completarsi, del verso precedente e soprattutto di quello successivo:

“dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”

nel quale si spinge con una o più parole superando, come struttura logico-sintattica, il confine metrico del verso. Tale sconfinamento costituisce l’enjambement, termine francese che in italiano viene reso con la parola “inarcatura”. Si tratta di un artificio retorico tra i più importanti per gli effetti che produce dal punto di vista metrico-ritmico e per il rilievo in cui pone le parole separate alla fine e all’inizio dei due versi; separazione che può interessare aggettivo/sostantivo, soggetto/verbo, verbo/complemento oggetto, ecc.. L’Infinito di G. Leopardi, il primo cronologicamente tra i canti del ciclo idillico, occupa una posizione di grande rilievo nelle letterature poetiche, per l’altissimo livello che raggiunge dal punto di vista fonologico, lessicale, metrico, grammaticale, semantico. Dal punto di vista metrico spicca l’uso sistematico dell’enjambement. Dei 15 versi che lo compongono, escludendo il 1°, 3°, 11° e 14°, tutti gli altri  ne sono interessati, influenzando intensamente il ritmo. La misura infatti dell’endecasillabo viene da questo artificio alterata continuamente, tanto da trasformare i primi tre versi di cui sopra, in un endecasillabo, un quinario e una lunga sequenza di 17 sillabe:

“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

e questa siepe,

che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”

lettura questa di versi, ora contratti ora distesi, che richiama  il contrasto tra la siepe e l’infinito che essa nasconde, vera e propria metonimia della parte per il tutto e che ben si accorda con il senso di prossimità e di distanza nel gioco degli aggettivi dimostrativi “Questo e Quello”. Per Leopardi l’infinito non è una entità positiva percepibile in sé, ma necessita di una determinazione accessoria che si pone e si propone come limite, in questo caso la siepe, da superare nei confini. Da qui la necessità, per il poeta, di quella parte per il tutto che nel ciclo idillico determina la presenza costante di descrizioni ed aperture paesaggistiche.  (continua)


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