Siamo fatti di parole: raccontiamo e ci raccontiamo

“E’ essenziale il parlare per la Religione?! Si chiede Wittgenstein. Si risponde che no perché l’essenza della religione non è la dottrina, ma la fede. E se si parla – per esempio con la preghiera – questo diciamo così, comportamento verbale discende dalla religione, non la crea. E noi partannesi? Non siamo diversi dagli altri siciliani dato che la megghiu parola è “chidda chi un si dici?”. Ci sono proverbi che sono saggezza e ci sono proverbi che sono stupidaggini, di più: pregiudizi duri a morire che si traformano più che in pettegolezzi in stigma e pregiudizi. E i pregiudizi (giudizi dati prima) non solo impediscono di avere idee nuove, ma ci tengono legati a idee vecchie. Tradizione non significa portarsi un mondo vecchio e arretrato, non è una catena o una palla al piede che ci tiene incatenati: tradizione vuol dire scegliere. Anzi: saper scegliere. Nessuno oggi, per gusto della tradizione butterebbe a mare il metano per fare fuoco normalmente col li “mazzi di ligna”. Se lo si fa è qualche volta, per un evento, una ricorrenza, una tradizione che comunque ha sempre radici antropologiche. Senza contare che che spesso lo stigma porta alla tragedia: ricordate quanti personaggi partannesi sono finiti in manicomio perché parenti interessati più ai loro soldi che al loro affetto, li hanno fatti “bollare” con il marchio del pazzo? E quando succedeva nel passato non poi così lontano, costoro – colpevoli di qualche bizzarrìa, di non vestirsi in modo conforme, di comportarsi come voleva la parte più retriva della Santa Madre Chiesa (i famosi “santocchi!”) venivano sottoposti a elettroshoc che una psichiatria malsana e senza fondamenti scientifici riservava ai “diversi”. Se qualcuno avesse letto “Sicily” capirebbe meglio. A volte le parole – a differenza di ciò che sostiene un proverbio stupido e siciliano – fannu chhiù pirtusa di un coltello appuntito. Oggi – per citare il grande Baumann – che lo lo scrivente ha avuto il privilegio di conoscere di persona – dice che non esistono più legami, ma connessioni. Anche queste fatte di parole. Guardate i giovani ad un tavolo di bar. Non comunicano: parlano e non si guardano neppure negli occhi. Sono connessi. E non solo con “altri” più o meno lontani, ma parlano tra loro – fisicamente vicini – tramite internet. Ci sarebbe da ridere. Eppure tutto ci appare ormai “normale”. Del resto anche la scuola – che si autodefinisce “buona”- non fa altro che implementare questa abitudine. E in tempi non sospetti Popper parlava di “cattiva maestra televisione”. Oggi dovrebbe parlare di “cattiva” scuola viste le mille cose che non funzionano; la scuola ha anche il difetto di privilegiare le informazioni a scapito della VERA conoscenza. Ma il punto non è questo: il punto è che la scuola rafforza le inveterate abitudini di una certa tradizione – fatta soprattutto di parole visto che la nostra è soprattutto una tradizione orale – che vuole il partannese o rassegnato e quindi omertoso o silente e quindi incapace di uscire dall’isolamento. Dove sono finite le bande, i giochi di movimento, la famosa “merca” tra i quartieri? E dove sono finiti i quartieri, l’orgoglio innocuo dell’appartenenza? Siamo succubi della nostra tradizione peggiore a cui si è aggiunto il prevalere delle autorità epistemiche, quelli che fanno opinione, quelli de “lu pedi di pignu”. Mi spiace per chi non ama le citazioni, ma avete presente ciò che Pirandello fa dire al suo Enrico IV? Era caduto da cavallo. La botta durò solo qualche tempo e poi decise che continuare ad essere pazzo poteva essere doloroso, ma avrebbe costretto gli altri a dire la verità, a partire dalla moglie che lo cornificava a sua insaputa e comunque di nascosto. Quando si rivela ai due camerieri sbalditi e paurosi li apostrofa con queste parole riferite a quanti lo hanno voluto pazzo parlando e sparlando di lui: “Loro, sì, tutti i giorni, ogni momento, pretendono che gli altri siano come li vogliono loro: non è mica una sopraffazione questa! Che è il loro modo di pensare, il loro modo di vedere, di sentire: ciascuno ha il suo! Anche voi avete il vostro! Ma che può essere il vostro? Quello della mandria! Misero, labile, incerto… E quelli ne approfittano, vi fanno subire accettare il loro, per modo che voi sentiate e vediate come il loro! O, almeno, si illudono! Perché poi che riescono a imporre? Parole! Parole che ciascuno intende e ripete a suo modo, Eh, ma si formano pure così le cosiddette idee correnti! E guai a chi un bel giorno si trova bollato da una di queste parole che tutti ripetono! Per esempio “Pazzo! – Per esempio, che so? Imbecille. Ma dite un po’ si può star quieti a pensare che c’è uno che si affanna a persuadere gli altri secondo il giudizio che si è fatto di voi? Il silenzio – quello che non si sceglie ma si subisce è sempre omertoso da noi. Siamo fatti di parole. E qui un proverbio di saggezza dice: testa chi un parla si chiama cucuzza. Noi abbiamo sempre parlato. Come potevamo, con i nostri mezzi, con i nostri collaboratori, con coloro che non avevano neanche un diploma in un paese in cui tutti sono dottori o diplomati, anche se nessuno legge un libro. Ricordate il poeta Caruso che ha scritto poesie stupende? Il Circolo di cultura Pirandello non lo volle tra i suoi soci. Avevano ragione: da dove era situato il Pirandello tracimava cultura inondando le strade, creando bombe di sapere che erano pericolosissime per tutti noi ignoranti, tanto da dover ricorrere alla Protezione civile, se ci fosse stata. Ringrazio il cielo di essere stato risparmiato da tanta cultura perché ho dovuto fare l’ispettore centrale del Ministero. Ma questo non ha impedito al Dirigente del Magistrale di allora di avermi escluso dalle celebrazioni per l’anniversario del Magistrale. Oggi lo ringrazio. Perché ha saputo alimentare in me non il rancore, ma la grinta. I poveri, e soprattutto coloro che non fanno parte della “maidda”, devono subire umiliazioni per arrivare. E questo non succede solo in vita, ma anche in morte. Perché al preside Giacomo Leggio che nulla ha fatto per fare una scuola che aprisse e favorisse i poveri (no non è politicamente corretto: i deprivati) è stata dedicata l’Aula Magna dell’ex Istituto Magistrale? Si è chiesto ai figli dei contadini, dei pastori, della povera gente perché bocciava principalmente “quelli nati alla zappa e alla vanga”? E perché al grande Varvaro Bruno saccheggiato a piene mani non è stato dedicato il Belvedere Bellini laddove avrebbe avuto un significato che sarebbe andato oltre il simbolo, oltre il ricordo? Per avere una intitolazione non basta essersi comportati onestamente. Ci vuole ben altro. C’è una strada nella “mia” (in senso affettivo perché ci ho vissuto l’infanzia) montagna dedicata a Franco Taormina. C’è qualcuno che sappia dirmi cosa ha fatto per Partanna? Il sindaco mi ha detto che era un “atto dovuto”. Gli ho creduto. Ma intitolare di nuovo si può. E’ un debito verso tutti i partannesi che credono nei valori più profondi della nostra “partannesità”. Caro Sindaco, ci sono gli atti dovuti e le omissioni di atti di ufficio, anche quelli non penalmente perseguibili, ma che interpretano i sentimenti dei cittadini e la loro sensibilità nei confronti della democrazia che non di rado a Partanna è stata calpestata da coloro che invece di essere interpreti del popolo lo considerano bue. Come il fascista preside indicato. Faccia decidere ai partannesi se i nomi indicati (e altri) siano DEGNI. Caro Nicola – se posso ancora permettermi – tu non faresti mai il mendicante di firme per essere nominato Cavaliere. Qualcuno lo fa. Senza merito alcuno. Se la vedranno i posteri. In fondo i nomi non sono altro che parole…

Appunto. Siamo fatti di parole.

Vito Piazza


Pubblicato

in

da

Tag: