“Di lu scuru a lu scuru”

 

“Dal buio al buio”. Non si tratta di un proverbio e nemmeno di uno scioglilingua, ma di una realtà storica siciliana esistita  durante la passata civiltà contadina. I nostri contadini, infatti, fino agli anni ’50 circa lavoravano nei campi dalla mattina ancora al buio, fino a sera, quando tornava il buio della notte. Un’antica “nniminagghia” (indovinello siciliano), oggi di difficile comprensione, diceva così: “Cu lu scuru partu, cu lu scuru tornu e cu lu scuru fazzu la iurnata”. Si trattava dell’aratro, che il proprietario si portava con sé sul carro, di mattina ancora al buio, lavorava tutto il giorno al buio, perchè il vomere sta sotto terra, e ritornava di sera tardi col buio. In quel periodo l’impiego di mezzi meccanici nelle campagne stentava ancora ad arrivare e tutti i numerosi e pesanti lavori si eseguivano a forza di braccia, con l’ausilio degli animali da soma e l’aiuto di tutti i familiari. Pertanto, c’era sempre la necessità di lavorare anche 14 ore a giorno, per recuperare quelle giornate in cui a causa delle intemperie si restava fermi, ma non in ozio. Inoltre, siccome l’asinello ed il mulo erano i mezzi di locomozione molto lenti di allora, i contadini si dovevano partire dal paese molto presto per raggiungere il lontano posto di lavoro.  La loro giornata lavorativa iniziava, come si diceva allora, “quannu zinca l’arba a la calata di livanti” (quando l’alba appena si percepisce dalla parte bassa del cielo di levante).

All’alba, il contadino già lavorava da un pezzo. A proposito di alba, allora si usava dire anche: “A li sett’arbi”, che era una abbreviazione di “a li setti stiddi di l’arba”, cioè quando in cielo si scorge verso ponente “la puddara” (le sette stelle delle Pleiade  nella costellazione del Toro, che in estate si scorge verso le ore cinque del mattino), o “A la nisciuta di lu suli” (al sorgere del sole). Quando il cielo diventava più chiaro si parlava di “arba chiara”.

Durante la stagione estiva, a causa dell’eccessivo caldo, chi lavorava per conto suo, (burgisi, mezzadro), verso le ore 11 “quannu lu suli era ‘n pernu” (quando i raggi del sole cadevano diritti come un perno), interrompeva il lavoro per evitare un’insolazione. Durante quell’intervallo non se ne stava con le mani in mano, ma lavorava all’ombra sotto la “pinnata” (tettoia fatta d’aste di “gabbare” e canne) confezionando “panara, carteddi, manici di zappuna”, inoltre accudiva agli animali, si riparava qualche attrezzo di lavoro, ecc. Riprendeva il lavoro alle ore 16 circa “a la rifriscata”, cioè quando c’era meno caldo e continuava fino alla “cuddata di lu suli”. Questa usanza mi fa ricordare la siesta messicana ma principalmente i racconti di Marco Polo.  Infatti, da quello che ricordo di avere letto, quando Marco Polo entrò in un paese dell’Arabia, nell’ora più calda della giornata, lo trovò deserto; gli edifici non davano segni d’abbandono, ma della popolazione nessuna traccia. Solo nel tardo pomeriggio, il paese incominciò ad animarsi e le persone uscirono da casa per riprendere il lavoro interrotto durante le ore più calde. Voglio chiarire che il tramonto si poteva anche dire: “a la ‘ntrabbunuta” o quando il sole si trovava “a la calata di punenti” o “a la scurata”. “La scuratedda” era un termine generico per dire poco prima del tramonto. Quando il lavoro era fatto con mano d’opera “adduvata” (affittata; con operai pagati a giornata), il lavoro nei campi si svolgeva incessante dall’alba al tramonto, interrotto solo durante i pasti.

Siccome per tutti i lavori occorreva molta mano d’opera (“tanti manu Diu li binirici”), inevitabilmente la famiglia doveva essere numerosa, viceversa la piccola azienda non poteva andare avanti. Allora era normale trovare una famiglia con dieci figli. La fede religiosa oggi lascia molto a desiderare, ma allora era molto sentita dai contadini; essi pregavano ardentemente il Signore affinché la pioggia ed il bel tempo si alternassero nei momenti più favorevoli per l’agricoltura. Allora, infatti, mancavano i fertilizzanti, gli insetticidi, l’irrigazione e i contributi statali per quando il raccolto andava male; bastava un’intemperie, un’epidemia di occhio di pavone o mal nero, per rovinare tutta la coltivazione, frutto di un anno di lavoro. Durante lunghi periodi di siccità, spesso le stesse parrocchie organizzavano delle processioni per la pioggia.

La prima messa si celebrava in chiesa alle 4,30, per permettere ai contadini di assistervi prima di andare al lavoro.

Vito Marino


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