La concezione della morte nella civiltà contadina

CASTELVETRANO – Il Siciliano ha avuto da sempre il culto dei morti e delle tombe. Dopo la morte, nella sua cultura cristiana non c’è il nulla eterno; il defunto, infatti, continua a vivere nell’aldilà, mentre i parenti viventi parlano di lui, “bon’arma”, in ogni occasione. Continua così una “corrispondenza d’amorosi sensi” (direbbe il Foscolo) con l’estinto.

I nostri nonni si rivolgevano ai propri defunti per ottenere delle grazie; “li murticeddi”, riconoscenti, spesse volte venivano in sogno per accontentarli, dettando loro dei numeri da giocare al lotto oppure indicando loro l’ubicazione di tesori nascosti: le famose “attruvature” di cui ne parla ampiamente la nostra letteratura del passato.

Il pensiero della morte accompagnava i nostri antenati nel corso della vita; morte intesa come castigo dei peccati commessi e come liberazione da questa vita grama e subita con sdegno, rassegnazione e senso d’impotenza allo stesso tempo. Tuttavia, il ricordo dei propri avi, la nostalgia del passato, l’amore per la famiglia, per la casa e la terra, procuravano un maggiore attaccamento alla vita. Il suicidio, tanto di moda fra i moderni popoli del benessere, nel passato, da noi era quasi sconosciuto; la speranza di un domani migliore dava più carica per non arrendersi alle avversità.

Secondo la credenza popolare, l’anima del defunto resta per tre giorni in casa; da qui l’usanza di lasciare per tre giorni l’imposta aperta. Non avendo ancora l’anima abbandonato l’abitazione, si continuava a parlare col defunto e, a dimostrazione dell’affetto, le donne di parentela più intima inneggiavano il defunto con cantilene commemorative, dei lamenti misti a pianto chiamato “repitu”; inoltre raccomandavano al defunto di salutare gli altri “murticeddi”- Per avere maggiore effetto spesse volte nel passato questo compito era assegnato alle “prefiche” o “reputatrici”, donne professioniste specializzate in lamenti funebri, assunte anche a pagamento, che inneggiavano alla gloria o a fatti successi al defunto e manifestavano il rammarico per la sua scomparsa. Il “repitu” esisteva anche nella Piana dei Greci: le reputatrici, recitavano in lingua albanese delle nenie, ma anche si strappavano i capelli e li spargevano sul cadavere, gesta accompagnate da pianti, urla, graffi, tipici dell’antica civiltà greca. L’usanza da parte della donna di graffiarsi il viso e di strapparsi i capelli era estesa a tutti i grandi dolori e dispiaceri della vita. Ricordo, infatti, una frase che si diceva in questi casi: “si ratta e pila” (si graffia e si depila). Durante nove giorni nella casa del defunto si tratteneva “lu visitu” (si ricevevano le visite da parte d’amici e parenti, anche più volte), un vero martirio per i “dolenti”. Inoltre, non si doveva cucinare. Siccome si doveva pur sopravvivere, i parenti, a turno, portavano loro dei cibi già preparati; questa manifestazione d’affetto era chiamata: “cunsulu” (consolazione). Si tratta del banchetto funebre dei romani, che si è tramandato, un po’ modificato, fino a mezzo secolo fa. Il cibo e la sua abbondanza sono tracce di un lontano simbolismo propiziatorio connesso alla commemorazione dei defunti. Alla morte doveva seguire la rinascita della vita e, per sollecitare il risveglio della natura, era necessaria un’offerta alimentare simbolica ai defunti. Infatti, solo il cibo, la contraddizione della morte, può garantire la continuità della vita. Per non fare perdere ai bambini la memoria dei cari defunti, fino a qualche decennio fa, in occasione della commemorazione dei defunti, c’era la tradizione di portare dei doni e far credere, nella loro dolce innocenza, che a fare ciò erano stati “li murticeddi”.

Vito Marino

 


Pubblicato

in

,

da

Tag: