Le Cure Palliative nel bambino: l’attenzione agli ultimi momenti della vita

Cari Lettori, l’articolo di questo mese  di cui voglio rendervi partecipi riguarda il mio ambito professionale sono infatti psicologa e psicoterapeuta familiare che si occupa anche di cure palliative e cure palliative pediatriche.

L’esperienza professionale che paradossalmente mi ha veramente regalato il senso della vita sono stati i 2 anni di lavoro trascorsi presso l’ Hospice “ Raggio di Sole” di Salemi e le docenze sull’argomento “ Le cure palliative nel bambino” svolte nel master I livello Cure palliative presso la facoltà medicina e chirurgia di Palermo.

Prima di addentrarmi nello specifico descrivo brevemente cosa sono le cure palliative: il temine palliativo deriva da “pallium” che è il mantello con cui si avvolgevano, si proteggevano i pellegrini nel Medio Evo e la medicina Palliativa assiste in modo totale i malati terminali “avvolgendoli” con tutte le risorse tecniche ed umane di cui dispone.

Nel 1990 l’OMS  definì le cure palliative come: “ L’assistenza (care) globale, attiva, di quei pazienti la cui malattia non risponde ai trattamenti. E’ fondamentale l’approccio e il controllo del dolore, degli altri sintomi e delle problematiche psicologiche, sociali e spirituali”.

Nel 1998 L’OMS definì le cure palliative pediatriche come l’attiva presa in carico globale del corpo, della mente e dello spirito del bambino e comprende il supporto attivo alla famiglia .

Vorrei soffermarmi con voi su delle riflessioni circa la malattia terminale dell’infanzia e dell’adolescenza: argomento dove  inevitabilmente si è portati a trattenere il respiro di fronte all’immenso dolore che trafigge il cuore di una madre, disperata per non poter far nulla per il figlio e costretta all’ultimo saluto.

Come nel trapasso della nascita, la corporeità fa la parte del leone: le mani di madre e figlia si toccano in un angosciante stringersi che suggella l’ultimo saluto, prima di irrigidirsi nella freddezza spettrale dell’ultimo anelito di vita. Un piccolo affanno che il figlio sembra trattenere negli ultimi sguardi, oramai velati di grigio, spenti, che cercano paradossalmente di dar conforto alla madre, dissolvendosi lontano.

La madre non riesce quasi mai a ricambiare quegli sguardi. Preferisce ricordare il figlio quando lo guardava giocare pieno di vitalità. È quello cui molto spesso mi è capitato di assistere di fronte alla morte e al morire di questi piccoli corpicini ridotti allo stremo. Si teme l’ultimo respiro e si rischia, nello schivarsi, di perdere proprio l’ultimo respiro d’amore; di scambiare un affetto spesso capace di grandi ricostruzioni di senso cui non si è mai prestata attenzione.

In quel momento si ricongiungono vite spezzate. In quel momento si agiscono perdoni impensabili e impossibili. In quel momento si può ritrovare se stessi e l’altro in una relazione autentica mai realizzata. Ecco che la morte resuscita il senso delle relazioni perdute e merita pertanto grande attenzione.

Da qui l’importanza della figura dello psicologo che sostiene e tira fuori la sofferenza facendo esprimere l’indicibile.

La morte va ascoltata e accolta come la grande opportunità della vita.

Un paradosso? No. Spesso le urla di angoscia e di dolore dei bambini di fronte alla morte ripropongono quello della nascita e con esse la sofferenza per quella prima separazione che, immancabilmente, come il rintocco di una campana “a morto”, si ripropone nella nostra esistenza.

Ma se alla nascita l’oppressione per la mancanza viene quasi immediatamente fugata in quel venire alla luce e ritrovarsi fra le braccia accoglienti della madre, nei bambini che guardano la morte in faccia, nel viso prosciugato delle loro madri, si assiste alla costernazione e allo sconforto più nero per quella perdita sentita, a ragione, irreparabile e irriducibile.

Il bambino dovrà fare a meno per sempre della madre e la consapevolezza di questa perdita definitiva è colta in quel grido di dolore disperato che nessun adulto sembra riuscire a consolare.

Gli adulti vivono da adulti la separazione. La loro compostezza li porta a eludere gli sguardi.

Il bambino, invece, sente sulla sua pelle questa tragica separazione ed espone il suo dolore e la sua angoscia a chiunque si disponga a “vedere” dentro quelle nervose reazioni la tragedia che vive, facendola sua. Il bambino ha bisogno di coinvolgerci per poter essere rassicurato dalla nostra presenza. Almeno la nostra, dal momento che nella stanza nessuno sembra poterlo comprendere. Il bambino urla il suo sconforto: aveva riparato la ferita già alla nascita, ora non potrà più farlo. Ha bisogno di ogni operatore ognuno nel loro ruolo per poter riconciliarsi con se stesso e il mondo. Il suo dolore strazia il suo cuore al punto da divenire assordante e lo porta a proteggersi gli occhi, per non vedere, le orecchie per non sentire, metaforicamente, il dolore; il viso intero, per non confrontarsi con quello gelido e inespressivo della madre. E quel grido di dolore è tanto più assordante quanto più gli adulti tacciono appesantendo quel silenzio di morte.

Ecco l’importanza della parola proprio nel fine vita. Una parola capace di dare a quell’ultimo respiro la brezza che riconcilia, quindi una seconda chance di vita.

Alla fine della vita l’esistente appare senza difese, non solo fisiche, ma anche psichiche. Le braccia sono abbandonate a se stesse e solo una mano, talvolta, quasi con caparbietà tenta di afferrare il lembo del lenzuolo, un modo di aggrapparsi, con tutte le forze, alla vita che sta sfuggendogli di mano, o a quanto resta di questa. Lo sguardo è spento sia perché alla fine gli occhi non sono più capaci di vedere i contorni, orientandosi piuttosto al proprio stato d’animo in uno sguardo introspettivo e retrospettivo: “ho fatto abbastanza. Sono stato onesto, buono. Ho lasciato qualcosa di me? …” sono le domande che sembrano affollarsi nella mente. La fronte appare madida di sudore. Fredda. I capelli scompigliati perché l’aspetto esteriore non ha più importanza; è ben lontano dalle preoccupazioni del morente. La bocca è bloccata in una smorfia di dolore appena sussurrato a chi sorregge il corpo consumato e tenta di alleviare l’arsura. Il medico si dovrebbe prendere cura di lui con sollecitudine.  Sollevarlo sia nel corpo che nel morale sussurrando, in silenzio: “ci sono io. Non preoccuparti. Non sei solo”.

Il fine vita sancisce l’amore del prendersi cura, di quella cura che ogni figura professionale addetta: dal medico/ allo psicologo/ all’assistente sociale /all’infermiere /all’operatore socio-sanitario e tutti  grazie al lavoro di equipe dovrebbero avere di fronte ad ogni malato, specialmente nel fine vita.

Il rapporto esclusivo sviluppato con i bambini malati di tumore e anche con gli adulti affetti da patologia terminale è stato ricco di emozioni, gratitudine ed affetto e ricompensa ampiamente gli sforzi, la competenza professionale e l’elevata quantità di risorse tecniche ed umane messe a disposizione per la loro assistenza. Ciò che si tenta di fare non è tanto significativo; sono i pazienti stessi ed il tempo che ci è concesso di trascorrere insieme a loro a dare senso alla nostra professione.

di Marilena Pipitone


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