Questo mese andiamo a……Montevago

Montevago: Ruderi della Chiesa Madre

MONTEVAGO –  Il disastro è a un passo, ma non si sfiora più nemmeno con gli occhi: per le nuove generazioni il tempo ha elevato una paratia invisibile tra le macerie del paese totalmente distrutto dal sisma e le case del nuovo centro ricostruito sulla base di un discutibile progetto urbanistico altrove ideato. Così, qui a Montevago, anche la memoria rischia di eclissarsi tra i mille pensieri e problemi d’ogni giorno.

Gli Xirotta, che nel 1640 hanno fondato il paese con “licentia populandi” del sovrano spagnolo, gli hanno dato un nome che contiene almeno un vizio: il “Monte” non è un monte ma un pianoro che guarda la valle del Belice e quel “vago” che certamente indica un luogo ameno, al tempo stesso ci trasmette una sensazione di indeterminatezza, di incertezza, (ora possiamo dire) come uno stare sospesi sul vuoto delle case sventrate, sul baratro d’una storia bruscamente interrotta. E dire che Montevago aveva impresso un’indelebile sua piccola impronta nel solco di questa Storia quando nel 1805 un suo figlio, l’ammiraglio Federico Gravina, da comandante della flotta spagnola, combattè valorosamente a Trafalgar, morendo poi per le ferite riportate nella battaglia.

Visitando i cumuli delle macerie, l’asse principale del vecchio centro ci conduce a un belvedere che guarda la valle là dove essa comincia a slargarsi prima di aprirsi definitivamente al mare: da qui, è possibile osservare un lembo di terra con tutte le sue ferite antiche e recenti. Salaparuta, Poggioreale e Gibellina stanno lì, di là dal fiume, affratellati nella tragedia che il tempo ha cristallizzato in ogni pietra e in ogni cuore di uomo che quel brivido di terra ha vissuto. Sul crinale di contrada Venaria, scorgiamo la tozza struttura in calcestruzzo che sorge sulle rovine del “castello”, la casa di caccia dei Filangeri-Cutò, dove principi e sovrani hanno soggiornato, ubriacandosi dell’aria e del paesaggio che non dà tregua agli occhi e allo spirito.

Tornando indietro tra le macerie del paese delimitate da bassi muretti, ci impressiona ciò che resta della Chiesa Madre (nella foto in basso): le possenti colonne, monolitiche forze che reggono la volta del cielo, sembrano sfidare la furia sotterranea della natura, mentre l’erba che cresce intorno veglia il sonno d’un mostro pietrificato. Commuove il silenzio che ci accompagna lungo le vie ortogonali in parte recuperate, ma ancor di più commuove un boschetto di 96 alberi, ognuno dei quali porta il nome di una vittima del terremoto: questa è memoria viva, che respira e guarda oltre l’angusto scenario della vicina materia inerte.

Andiamo. Due minuti ci bastano per ritrovarci nelle strade larghe del paese nuovo. È carnevale: carri, canti e balli obliano tristezze e i ritmi musicali galvanizzano i più restii a tuffarsi nei colori della festa. Fra due bicchieri di vino (un corposo Nero d’Avola, produzione vanto dei 3000 montevaghesi) e un panino con salsiccia, le ore scorrono fino a tarda notte, quando ancora i carri e i gruppi in maschera sono a metà del loro percorso.

Nella Piazza della Repubblica un bronzo, un Sole “accutuffatu” e taccagno di Giò Pomodoro, fa da sedile a quattro stanchi ragazzini incipriati. Qui fanno le sagre; qui, con altri canti, cabaret e giochi vari, s’allietano le serate estive degli emigrati tornati per le vacanze. Se c’è una rivoluzione, qui pare che sia nella normalità, nelle piccole cose di cui ci si accontenta. E sul volto della gente trovi questo impegno, che non è rassegnazione, ma vigoroso confronto con una difficile realtà economica. Faticosamente si cerca l’inserimento in un circuito turistico legato soprattutto alle “acque calde” dello stabilimento idrotermale “Acqua Pia”, una bella struttura con piscina e centro benessere in mezzo al verde. Ma pochi bed-breakfast per altrettanti pochi turisti non risolvono i problemi e così alcuni giovani, per sopravvivere, come i loro padri s’attaccano alla terra, alle fatiche spesso non ripagate, e altri, senza entusiasmo, riempiono valigie e partono. Nel frastuono della festa ci dicono che la “routine” del quotidiano vivere civile viene interrotta in occasione delle elezioni amministrative, quando la lotta diventa feroce tra due o tre fazioni contrapposte. Poi, sotto il cielo cangiante di tenerissima condiscendenza, fra queste case che non hanno ancora storia tutto ritorna come prima. E il vento porta via l’odore della “malacrianza”. Osserviamo che c’è un simile andazzo anche in altri paesi e un giovane ci domanda ridendo: “Allora, tutto il mondo è Montevago?”. “Sì, forse, tutto il mondo è Montevago…”.

Andrea  Ancona



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