Le carceri di Castelvetrano nella storia

Vito Marino-2A Castelvetrano il primo edificio carcerario di cui abbiamo notizia fu “Li carciri vecchi”, che si trovavano presso la torre di Giglio che ancora esiste nell’attuale Via Garibaldi. In seguito le carceri passarono alla “Vicaria Nova”, una massiccia torre saracena costruita a partire dal 1617 e terminata nei primi mesi del 1619. In quegli anni la Sicilia era sotto la dominazione di Filippo III re di Spagna; il viceré era il conte di Castro; mentre principe di Castelvetrano era don Giovanni d’Aragona e Tagliavia. Adibita a carcere duro fino agli anni ’40 e ubicata nella Via San Francesco di Paola (l’attuale Via V. Emanuele), nel 1952 la torre fu diroccata, per far posto all’attuale Banco di Sicilia. Mi soffermo, anche se in sintesi a riferire su questo edificio storico ed artistico, perché trattasi di un pezzetto di storia della Castelvetrano remota. Il Ferrigno ci fornisce notizie sulla storia del carcere e sulle torture, taglio di una o di tutte e due le mani e sulla condanna a morte, metodi medievali ordinari, che erano eseguiti dentro le sue mura. Per tale motivo era tristemente conosciuto in tutta la Sicilia; un proverbio siciliano di allora diceva: “Megghiu ‘n galera a vucari lu rimu, chi carzaratu a Castedduvitranu”. In un carcere, di quei tempi, la tortura non poteva mancare; era uno strumento di supplizio, praticato con uno o più tratti di corda ai condannati per reati commessi; era usato anche come mezzo, abbastanza persuasivo, per indurre i rei a confessare colpe che non sempre avevano commesso. I tratti di corda erano continui, lo strumento non restava inoperoso. Una trave in legno rovere, una carrucola, un robustissimo laccio pendente, costituivano l’infame strumento. La prova che lo strumento non restava inoperoso si trova nel fatto che ogni tanto si doveva riparare. Oltre alla tortura delle carceri, v’erano a Castelvetrano altre due torture di castigo: una si trovava al campanile della chiesa Madre ed un’altra nel palazzo dell’università (comunale). I condannati a morte erano assistiti dalla Compagnia dei Bianchi, che amministravano anche il Monte di Pietà e l’Ospedale degli infermi indigenti. La Compagnia aveva il suo oratorio nella chiesa di Sant’Antonio Abate, nella piazza omonima, ora Nino Bixio. Nell’esplicare il suo pietoso ufficio adottava lo stesso cerimoniale della Compagnia dei Bianchi di Palermo. Era obbligo di ogni confrate consolare assistere il condannato, o, come allora si diceva, il povero afflitto, curarne in tutte le maniere la conversione e prepararlo, ove del caso, a “sopportare” il taglio di una o di tutte e due le mani, assisterlo nei tre giorni precedenti l’esecuzione e infine anche sul luogo del patibolo. Il capitano di giustizia, incaricato all’esecuzione della condanna a morte, ne dava notizia al Governatore e Rettore della Compagnia dei Bianchi, pregandolo di presentarsi nelle carceri, con tutta la Compagnia, nelle ore pomeridiane di un giorno stabilito, per ricevere in consegna il condannato, per confortarlo e assisterlo, compito cui era obbligata la Compagnia. Ricevuto il condannato, dopo averlo confortato, nel pomeriggio del terzo giorno, la Compagnia si riuniva nell’oratorio, e, vestita del proprio abito (sacco e visiera in seta bianchissima pieghettata, immagine del SS. Crocifisso alla visiera, scarpe bianche a doppia suola, grossa corona di legno sul capo), processionalmente, cantando le litanie della Beata Vergine, si recava alle carceri, entrava nella chiesetta, dove il capo cappella dei confortanti faceva una breve esortazione; entrato poi nella stanza del carceriere, si presentava il carnefice, che legava con funi il giustiziando. Fattasi la riconsegna, per pubblica ricevuta, il povero afflitto veniva rimesso nelle mani del Capitano di Giustizia. Con l’assistenza del confortante e del capo di cappella secolare ai lati del povero giustiziando, il mesto corteo si avviava al luogo delle Forche, dove il disgraziato veniva impiccato da due boia, il soprano ed il sottano, sorretto nel salire la scala dal capo di cappella secolare. Quando il disgraziato non si sentiva di fare coi propri piedi la strada per andare al patibolo, veniva da due serventi trasportato sopra una sedia, ben legato. Appena il disgraziato rendeva l’anima al Creatore, s’intonava il ‘De profundis’ ed il “Miserere mei Deus”. Quindi il cadavere veniva accompagnato processionalmente e sepolto, al luogo solito, nella chiesa di San Leonardo. Per lo più le esecuzioni avevano luogo nel sito denominato ‘Le Forche’, a poche centinaia di metri a nord della città. Spesse volte però la corte superiore stabiliva che l’esecuzione avvenisse nello stesso luogo, o vicino al luogo, del delitto, “in loco, vel prope locum, delicti”; e si aveva perciò lo spettacolo miserando di esecuzioni nelle piazze e nelle vie della città. A duraturo ammonimento dei popoli, le teste, e talvolta anche le mani dei giustiziati, che per le loro gesta nefande si erano resi famosi, collocate in apposite gabbie di ferro, venivano appese alle grate delle carceri. L’ordine di esecuzione veniva dato nei seguenti termini: “iste de (nome del giustiziando) suspendatur in furcis usque quo eius anima a corpore separetur et executio fiat in terra (comune dove avveniva l’esecuzione) et post executionem amputentur caput et manus et affigantur in cratta ferrea in carceribus”. Un proverbio antico diceva “Aviri tri ghiorna di tempu comu lu ‘mpisu” avere una scadenza di tempo breve. Un altro diceva: “Ed è lu ‘mpisu chi avi tri ghiorna di tempu!”, richiesta di più tempo per eseguire una data cosa. Inoltre: “Nta la casa di lu ‘mpisu nun si po appenniri un agghialoru”, non nominar la fune in casa dell’impiccato. Intorno agli anni’50 il vecchio convento dei minimi, chiamato comunemente “lu quarteri” perché fu adibito a “quartiere” (caserma militare) durante la II Guerra Mondiale, fu adattato a carcere mandamentale per alcuni anni. Il nuovo carcere attualmente in funzione (Sezione Casa circondariale ex Casa mandamentale) fu costruito in contrada Strasatto nel 1986 e consegnato nel 2000.

Vito Marino


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