Pane nero, grazia di Dio

 

In tutto il Mediterraneo, il pane e la pasta sono

stati sempre considerati gli alimenti indispensabili

alla sopravvivenza umana. Oggi, in un mondo

sfrenato, dove i beni voluttuari e super_ ui sono consumati

alla stessa stregua di quelli primari, sembra

quasi anacronistico parlare dell’importanza del pane

o della “sacra del pane nero”. Il pane nero, preparato

con farina integrale di grano duro, oggi è prodotto

da tutti i pani_ ci di Castelvetrano; per la sua bontà

è conosciuto in tutta Italia ed è esposto nelle _ ere

campionarie. Durante e nell’immediato dopoguerra,

a causa del principio dell’«autarchia», imposto dal Governo

Mussolini, il pane nero (quello bianco era considerato

un lusso e raramente si trovava) si comprava

al forno in maniera molto limitata (cento grammi a

testa al giorno), dietro presentazione dell’apposita

tessera a tagliandi, rilasciata dalle Autorità. Per non

morire di fame, si ricorreva al pane fatto in casa con

farina comprata a mercato nero e, se non si trovava

nemmeno quella, si aggiungeva farina di qualsiasi

cereale o di legumi, macinati con il macinino a mano,

che oggi fa bella mostra come cimelio dell’antichità

sui nostri mobili. Il pane nero, che a Castelvetrano

abbiamo sempre chiamato “pani di casa”, durante la

civiltà contadina, rappresentava qualcosa di sacro,

d’insostituibile, d’importanza vitale. Spesse volte la

“mal’annata” mandava a quel paese, tutto un anno di

duro lavoro; occorreva veramente molta fede in Dio

ed il Suo intervento bene_ co per ottenere un buon

raccolto! Pertanto, prima di tagliare la classica “vastedda”,

il capo famiglia faceva il segno della croce

con il coltello sulla parte piatta. Se un pezzettino cadeva

accidentalmente per terra, si puliva, si baciava,

come una cosa sacra, e si rimetteva sul tavolo. Esso

non si posava mai con la parte piatta rivolta verso

l’alto; mia madre mi spiegava che essendo il pane benedetto

da Dio, Lui si sarebbe o_ eso. Il capo famiglia,

durante i pasti, lo a_ ettava per tutti, distribuendone

una fetta ciascuno; tacitamente signi_ cava che quella

doveva bastare. Il lievito usato per la pani_ cazione

era “lu criscenti”, ottenuto con pasta lasciata per

alcuni giorni ad acidi_ care e conservata, a forma di

panetto, in una ciotola, coperto con un tovagliolo

inumidito, anche per una settimana. Siccome allora le

bocche da sfamare erano molte, si pani_ cava in media

una volta a settimana. Finito di “scanari o scranari

o caddiari” (d’impastare a mano), si faceva un segno

di croce con il coltello su tutta la pasta; quindi si preparavano

i pani con le forme desiderate: “vastedda,

pistuluna, cuddureddi e panuzzi”, si cospargevano di

“giugiulena” (semi di sesamo) e si mettevano “a lettu”

(al calduccio fra due lenzuola e delle coperte) per diverse

ore, per favorire la lievitazione. Il forno si “camiava”

(riscaldava) principalmente con fascine di legna

d’ulivo, perché le sue “vampate” (_ amme) davano più

calore e conferivano al pane un sapore migliore. “Lu

pani di casa” (casereccio) sicuramente emanava una

fragranza tutta particolare; merito di una lavorazione

più accurata (molto olio di gomito) e dalla scelta del

tipo di grano “Tumminia”, macinato nei mulini ad acqua.

Tutti erano concordi nell’a_ ermare che le “mani

calde” di chi impastava erano un dono insostituibile ai

_ ni della lievitazione. Al contrario, si sosteneva che la

donna mestruata, in quel periodo, avrebbe impedito

la fermentazione del lievito. Sfornato il pane, molte

famiglie usavano preparare il “pani cunzatu” con olio,

origano e sale, che era regolarmente condiviso con

parenti o con la “cummaredda” della porta accanto;

il profumo indescrivibile ed inebriante sapeva di

cose sane ed antiche. Voglio citare alcuni termini

dialettali, oggi andati in disuso, che riguardavano la

pani_ cazione: “La balata di furnu” era lo sportello di

lamiera che chiudeva la bocca del forno; si chiamava

“balata”, perché una volta era fatto con una lastra di

pietra. – “Scannaturi” o “scrannaturi” era la tavola per

impastare (spianatoio). – “Cuvirnari” il forno signi_ cava

stare attenti, a_ nché la legna non mancasse mai

e bruciasse uniformemente su tutto il pavimento.

– “Smasari” signi_ cava uscire il pane dal forno dopo

circa 15 minuti e, in base alla sua cottura, risistemarlo

nei punti più o meno caldi, noti alla massaia, per

completarne la cottura. Un buon pane sfornato poteva

essere: “mufuciu o cottu” (so_ ce o cotto), viceversa

era “abbruciatu o cu li papuli”, a causa di una cattiva

cottura oppure “nchiticchiunatu o chiattu” per una

cattiva lievitazione. Pertanto la massaia, dopo avere

infornato il pane, non si dimenticava di fare un altro

segno di croce e di dire:- “Pani crisci chi Diu ti binirici”.

Oppure: “Lu panuzzu è dintra lu furnu e lu Signuri è

mmezzu lu munnu”. Per esaltare la bontà del pane casereccio

si diceva: “Pani di casa, muzzica e vasa. Pani

di putìa muzzica e vavìa” (pane fatto in casa, mordi e

bacia; pane di bottega, mordi e sbava)”. Una curiosità

sul pane: in Toscana, nel Mugello, è stata trovata una

galletta cotta su pietre roventi che risale a 30.000 anni

fa (ANSA 18/10/2010). Ormai il pane nero di Castelvetrano

è conosciuto in tutta Italia. Per sponsorizzarlo

questa estate in una manifestazione a Marinella, si è

preparato il pane più lungo del mondo, esattamente

1187 metri, contro i 1103 metri del precedente primato

appartenuto lo scorso anno a Modica. Così si sono

preparati 2.000 kg. di pane, condito con160 kg. di olio

extra vergine d’oliva nocellara, 3Kg. di origano, 18 Kg.

di sale, 80 Kg. di pomodoro, 30 Kg. di formaggio, e 25

Kg. di sardine salate. In compenso il successo è stato notevole e l’affluenza di turisti altrettanto. (v.m.)


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