A Castelvetrano, “Maledetta mafia” di Piera Aiello e Umberto Lucentini

Il 29 gennaio al Liceo Classico “Pan¬taleo”, Piera Aiello e Umberto Lucentini hanno presentano il loro libro “Maledetta Mafia”. Al convegno erano presenti le maggiori autorità militari di Castelvetrano, esponenti di Libera, pubblico e studenti dell’Istituto. Coordinatore e organizzatore il preside Francesco Fiordaliso. Alla conferenza ha partecipato anche Maria Teresa Nardozza, a nome di “Libera”. Piera Aiello nasce a Partanna il 2/7/1967, nel 1985 sposa Nicolò Atria, figlio del boss Vito Atria. In una delle tante guerre di mafia che insanguinarono la Sicilia tra gli anni Ottanta e Novanta, nove giorni dopo il matrimonio viene ucciso il suocero e il 24/6/1991 viene ucciso il marito. Rimasta vedova di un mafioso, vestita a lutto, con una bimba di tre anni da crescere e una rabbia immensa nel cuore, decide di raccontare tutto quello che sa sulla mafia a Paolo Borsellino. L’allora procuratore capo a Marsala la fa trasferire subito in una località segreta e poco tempo dopo si unisce a lei anche la cognata Rita Atria, che, dopo la morte di Borsellino, non riesce a reggere al dolore e si toglie la vita. Per 20 anni Piera vive nascosta e protetta dalle forze dell’ordine. Una vita da fantasma, una vita da testimone di giustizia, tra le enormi difficoltà quotidiane e le carenze dello Stato, con mille difficoltà anche economiche. Aiello ha seguito, come testimone, diversi processi di mafia. Grazie alle sue rivelazioni, lo Stato è riuscito a dare un duro colpo alla vecchia malavita organizzata di Partanna. Il 24/10/2012 pubblica il libro “Maledetta mafia”, scritto assieme al giornalista Umberto Lucentini, biografo di Paolo Borsellino. I due autori girano per le scuole italiane, perché hanno capito che il seme della legalità trapiantato fra i giovani mette subito radici. Il fenomeno mafioso ha delle radici molto antiche. Stato, forze dell’ordine e magistratura, frenati dalla burocrazia o incapaci o volutamente inefficienti, nel passato nulla o quasi hanno fatto per fermare l’illecito. Anzi, proprio lo Stato nelle sue deviazioni ha usato questo sistema per tenere sotto controllo determinati movimenti politici o per ricevere informazioni riguardanti la stessa criminalità. Chi è stato al potere ha spesso amministrato non nel segno della giustizia, ma dell’arbitrio ed ha considerato il doveroso servizio verso i cittadini, come un atto di potere e non di dovere. Per tali motivi il popolo siciliano aveva considerato lo Stato come un nemico e un gran disonore avere contatti con la giustizia. In mezzo a quest’atmosfera assurda, e contro ogni logica umana, ha proliferato un secondo Stato; una giustizia arcaica retta da un “Don” che, senza i vincoli imposti dalle leggi, era più celere nell’amministrare la sua giu¬stizia. Così, fra la popolazione si è creato un mondo fatto di silenzi, chi parla ma anche chi sa per sua disgrazia qualcosa, è considerato complice degli “sbirri” e viene messo a tacere. In questo quadro desolante della legalità, i mafiosi, dopo l’Unità d’Italia, erano diventati numerosissimi, provenienti da tutte le classi sociali, come risulta da un rapporto della prefettura del 1874. Questo era il clima che si respirava ancora a Partanna, ma anche in tutta la Sicilia, fino alle stragi di Falcone e Borsellino. In una civiltà arcaica contadina e maschilista, Piera non poteva decidere sul suo matrimonio, perché erano i genitori a decidere a loro insindacabile giudizio; essi erano contenti di andare a far parte della famiglia Atria, una famiglia “ntisa”, cioè che si faceva rispettare in paese. Per merito di tre donne coraggio: Franca Viola (negli anni Sessanta), Rita Atria e Piera Aiello, le donne siciliane sono riuscite ad uscire fuori da questo tunnel che sa di medievale fattura ed iniziare la scalata verso l’emancipazione. Piera Aiello in questa occasione ha manifestato il desiderio di poter presentare il libro anche nelle scuole della “sua” Partanna.
Vito Marino


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