Il quesito “Bèlice” o “Belìce” è oggi più di ieri quanto mai attuale. In occasione del 40° anniversario del sisma del 1968,
infatti, sono state in tante, fra le numerose Autorità invitate a parlare nei diversi centri belicini, a porsi il problema in
considerazione delle sicure certezze di alcuni (quanto al ‘corretto’ modo di pronunciare il nome del fiume) in contrapposizione
all’imbarazzo o all’indecisione o all’indifferenza degli altri. Comunque è capitato che nella stessa occasione (ad
esempio la messa solenne che ha concluso a Partanna le manifestazioni), il vescovo di Mazara, monsignor Domenico Mogavero,
abbia detto nella sua omelia “Belìce”, mentre il sindaco di Partanna, on. Enzo Culicchia, nel suo saluto alla fine della
stessa messa, abbia detto “Bèlice”. Il comune mortale, dopo queste manifestazioni, si è ancora di più domandato come si
dicesse veramente. La risposta potrebbe essere, se fossimo al bar, “ma chi se ne frega!”. In un editoriale, però, questa risposta
è poco opportuna e poco elegante. Diremo pertanto semplicemente che non c’è nessuna regola che imponga l’una o
l’altra pronuncia. Cercheremo ora di spiegare perché, suggerendo, però, ai nostri lettori poco vogliosi di concentrarsi su
argomenti non gradevolissimi, di saltare a piè pari quanto diremo da qui in poi e di leggere direttamente le conclusioni.
Agli altri, più coraggiosi, faremo presente l’ovvietà della questione, ormai, per la linguistica moderna a partire da Ferdinand
de Saussure, passando per il Wittgentstein delle “Ricerche Filosofiche” fino alla moderna sociolinguistica la cui data
di nascita viene per lo più indicata nell’ormai nota “Storia linguistica dell’Italia Unita” di Tullio De Mauro (1963): a decidere
il successo o meno di una parola o di un accento non è una presunta legge linguistica ‘oggettiva’ (per esempio, dicono i
sostenitori dell’accento ‘obbligatorio’ sulla i, che si dovrebbe dire “Belìce” perché prima del terremoto i vecchi abitanti della
zona dicevano in dialetto “Bilìci”. Poi quelli che fuori del Belice parlarono del terremoto del Belice, avrebbero imbastardito
tutto e diffuso “Bèlice” con i loro potenti mezzi espressivi). A decidere del successo o meno di una parola o di un accento,
dicevamo, occorre che intervengano due fattori: il primo è il lancio o l’imposizione culturale del termine da parte di una
grande personalità (o di un gruppo) del mondo della cultura, della politica, dello spettacolo, dello sport ecc. che usa uno o
più potenti mezzi di comunicazione. Poi occorre che la massa dei parlanti accolga quel termine o quell’accento, e lo faccia
proprio. In altri termini, come ci hanno insegnato gli studiosi citati e la moderna sociolinguistica, l’imposizione o meno di,
nel nostro caso, un accento (“Bèlice” o “Belìce”), è un fatto politico-culturale; quell’accento non è per niente dovuto né a
fattori di tipo logico né di tipo naturale. Facciamo un esempio banale: oggi nessuno avrebbe difficoltà a dire “canzonissima”
e nessuno penserebbe di dire cose sbagliate, parlando di “canzonissima”. Eppure, se ci riflettiamo un attimo, “canzonissima”
è il superlativo di un nome, “canzone”; ma non sapevamo che i superlativi si facessero solo con gli aggettivi? Dovremmo
allora, in nome del purismo linguistico, proporre una campagna radiofonica e di stampa per rimettere le cose a posto ed
impedire che si dica “canzonissima”? Altro esempio: in epoca fascista si cercò di eliminare i cosiddetti forestierismi (cioè le
parole straniere usate nella lingua italiana). E così “bar” fu sostituito con “caffè” o con “qui si beve”. Nonostante i suoi potenti
mezzi di propaganda, il Fascismo non poté imporre alla massa dei parlanti quello che la massa dei parlanti non volle fare, col
risultato che ancora oggi si dice “bar” (e solo in qualche caso “caffè”), ma sicuramente nessuno dice “qui si beve”. Un ultimo
esempio. Quando l’uomo andò sulla luna ci si pose il problema se lì si atterrava o si allunava (e con lo stesso criterio oggi
che si è arrivati su Marte, si ammarterebbe). Ma chi oggi, in nome di una presunta coerenza linguistica, direbbe mai che sulla
luna si alluna o che su Marte si ammarta? Oggi si atterra sia sulla Luna che su Marte che, eventualmente, anche su Giove ecc.
Questi esempi servono a far capire che il successo di questo o quel termine, di questo o quell’accento, è legato non a fattori
di tipo logico o naturale, ma ai due fattori di cui parlavamo prima: 1) l’azione di un singolo o di un gruppo culturale più o
meno potente che utilizza strumenti comunicativi più o meno potenti; 2) l’adesione della massa dei parlanti. Mancando uno
dei due fattori, il termine o l’accento non passano. E tutto questo perché non c’è nella lingua nessuna ragione di tipo logico
o naturale per cui si debba usare necessariamente un termine o un accento (la lingua, come insegna Ferdinand de Saussure,
è, infatti, arbitraria). Andando al caso specifico – “Bèlice” o “Belìce” – che cosa è successo? Intanto, che a livello nazionale (e
il Belice andò purtroppo nella cronaca nazionale con il terremoto del 1968) la televisione e tutti i mezzi di comunicazione
di massa parlarono di “Bèlice” (senza accento sulla i). Nella stessa Valle una buona fetta della popolazione diceva già “Bèlice”
(senza accento sulla i) in particolare nell’espressione “Valle del Belice”. Solo alcuni (che ovviamente parlavano in dialetto),
quando si riferivano al fiume, dicevano “lu Bilìci”. Che è successo poi? Una certa intellighenzia locale, utilizzando gli strumenti
a sua disposizione come radio e giornali ed incontrando, dall’altra parte, ignoranza dei fatti linguistici o l’indifferenza
di molti, ha cercato e sta cercando, con una battaglia di natura squisitamente politico-culturale, di imporre sempre di più la
dizione “Belìce” e siamo oggi al punto che certe Autorità, venendo nella zona, hanno “timore” di dire ad alta voce “Bèlice” e
magari qui dicono “Belìce”. A questo punto a decidere sarà la massa dei parlanti: se questa rinuncia nel futuro a dire “Bèlice”
ed accetta l’accento sulla ì, come vuole quell’intellighenzia locale che in nome della vecchia parlata dialettale (nella quale
si diceva “Bilìci”) ha scelto di fare la battaglia politico-culturale per l’accento sulla i, può darsi che tra tanti anni (ma non è
poi così scontato) nel Belice si dirà “Belìce” con l’accento sulla i. E’ più difficile, però, che questo possa accadere per l’Italia,
data la pochezza e sproporzione, in questo caso, dei mezzi a disposizione di quell’agguerrito gruppo cultural-politico che
vuole imporre alla massa dei parlanti “Belìce”. E potrà succedere, in quel tempo futuro, che in Italia si parlerà di “Bèlice” (le
enciclopedie odierne – e, per fare solo un esempio molto autorevole, l’enciclopedia Treccani – riportano il termine “Bèlice”
con l’accento sulla “e” e non sulla “i”), magari ricordando che gli autoctoni amano dire “Belìce”. Questi, secondo il mio parere,
i termini della questione che è sostanzialmente solo cultural-politica. Varrebbe la pena, tuttavia, di tornare a quell’espressione
iniziale poco dignitosa: “ma chi se ne frega dell’accento?”. Diciamo pure come ci piace, senza farci condizionare più di
tanto da una moda che a livello locale sta diventando sempre più forte. Piuttosto varrebbe la pena di porsi altri problemi:
quanta disoccupazione c’è nella Valle? Quanta emigrazione? Quanto sviluppo economico? Quanto turismo mancato? Quanti
tesori architettonici non adeguatamente valorizzati? Quanta mafia?. Poi se quella Valle sia del Bèlice o del Belìce poco, in
quest’ottica, certamente importa.(Antonino Bencivinni)