Partanna non cresce perché umile? L’umiltà non è più una virtù

di Vito Piazza. I partannesi soffrono di umiltà. Perché come diceva Luis Borges l’umiltà ci rende sereni, ma l’ambizione ci rende migliori non ha niente di biblico, semplicemente sono “vili” che alla libertà hanno scelto la rasserenante felicità. Di contro Don Cristiano Mauri ha detto: “chissà come, ma i bagni d’umiltà li trovo sempre liberi”. La spiegazione è semplice: quei pochi umili che vanno in bagno li lasciano sempre sporchi convinti come sono che gli orgogliosi con le palle avranno anche loro bisogno del bagno e finalmente gli umili partannesi o i partannesi umili puniranno gli impenitenti che sono fieri e liberi. Partanna è ancora feudale e lo dimostra col suo attaccamento ai Grifeo che tutti esaltano dimenticando le servitù e le angherie del tempo dei principi e dei baroni. Sono riconoscibili questi servi moderni dalle citazione dei proverbi il primo dei quali è: CU S’AVANTA CU LI SO DENTI, UN C’E’ NENTI. Naturalmente questi servi mai citerebbero questo proverbio rispetto ad un potente. Solo chi è povero e vuole emergere viene tacciato di vanagloria.
L’umiltà – se si guarda bene – è solo delle cose, degli oggetti, dei monumenti, delle epigrafi: si dispongono tranquille là dove le posi, modeste, silenziose, obbedienti…L’umiltà è l’anticamera di tutte le imperfezioni. Il non fare è l’essenza degli umili: ma qualcuno ha detto che chi fa può sbagliare, chi non fa, ha già sbagliato.
La modestia ci ripara dagli altri, l’umiltà da noi stessi. Così Simon May. Ma ha sbagliato a scrivere o ha detto una cagata pazzesca. La modestia ci ripara dagli altri? Forse nel migliore dei mondi possibili ipotizzato da Panglos di Voltaire. L’unica forma di umiltà accettabile è la condizione umana e psicologica di valere meno degli altri, incapacità di essere liberi dagli altri, la poca stima di sé ne è la conseguenza. Ama il prossimo come te stesso non potrebbe essere realizzato se si fosse umili: l’umiltà è la peggiore forma di egoismo: significa volere che gli altri siano umili, come siamo stati costretti a sentirci noi per mancanza di un giusto orgoglio: siamo o non siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio? Questo, credo, nella cattolicissima Partanna (a parole) non è accettato, forse perché i partannesi credono più ai santi che a Dio – o meglio usano i santi come avvocati in grado di perorare la loro causa (interessi più che bisogni) presso il Padreterno. Di sicuro tra i partannesi l’amor Dei è sopraffatto dal timor Dei. Si vede dai proverbi che apparentemente niente hanno a che fare con la religione: “la megghiu parola è chidda chi un si dici”, “cu s’avanta cu li so denti un ci nn’è nenti…”.E qui guai a rendere pubblico il proprio curriculo: perché dici di essere stato professore universitario? Ti vanti. Perché principe del foro? Perché tu eri qui un povero Cristo dici che ora in America possiedi una catena di pizzerie? La risposta, se mi consentite, la dà chi scrive (psicologo sociale con tanto di concorso vinto e tanta pratica universitaria, TUTTO DOCUMENTABILE – il che non impedirà di essere annoverato tra i non umili), la risposta, dicevo, ha un solo nome: l’INVIDIA. L’invidia consente ai mediocri di uccidere con le parole chi esce dal ristretto campo psicologico dei partannesi. E chi non conosce la teoria del campo di Kurt Lewin non ammettendo la propria ignoranza (cosa che l’orgoglioso con ambizione fa invece) dirà che sono tutte cazzate. E continuerà la tradizione del pettegolezzo imposto dai mediocri che non sopportano chi si colloca su un cielo più alto e infinito che la cultura partannese non ammette, ristretta com’è all’unico cielo, quello partannese. E’ un fatto culturale imposto sempre dai dominatori e dagli opinion leader impedendo ai più di diventare leader di se stessi, traguardo che impone scelte e sacrifici, impopolarità se non addirittura ostracismo. Diventa un modo di accettarsi legittimando – l’umiltà – per non impegnarsi contando sulle proprie forze ma spesso sulla benevolenza se non addirittura la carità degli altri.
Non sono certo gli orgogliosi che vanno col cappello in mano a chiedere l’elemosina di un posto di lavoro o un tozzo di pane. Ulisse diventa umile di fronte ai Proci sapendo di poterli fottere al momento opportuno. Nessuno è umile senza ragione. C’è chi è umile per condizione e ci rimane perché non ha le ali per volare dal basso (misera condizione) all’alto. E se invece avesse voglia di migliorare arriverebbe in alto e potrebbe essere un nobile d’animo cosa impossibile o senza senso se si rimanesse umili. E’ l’orgoglio il volano per non rassegnarsi, per rialzarsi dopo essere caduti laddove gli altri – gli umili – aspetterebbero la solita mano, la stessa che ha fornito loro o lavoro o pane.
La vita è già di per sé, una lunga lezione d’umiltà, a volte un destino che tale sembra essere la vita dell’umile senza palle, senza dignità.
Difatti l’umiltà non è un volgare disprezzo di sé: essa è il senso della nostra misera incapacità di comandare agli eventi. In altre parole se sei umile, hai l’alibi di non sapere che l’uomo sia fatto per migliorare. E’ tutto scritto: che ti affanni a fare? Da qui l’accidia dell’umile che sceglie di essere tale. Alla nascita – in qualunque modo o posto o condizione siamo tutti umili – perché in balia degli altri – ma una volta raggiunta l’età della ragione c’è chi vuole salire e chi vuole rimanere, chi rimane inane, resta tutta la vita ad aspettare la buona sorte, chi parte crede in se stesso e nella sua capacità di pensare che deve esserci pure un sicuramente migliore. Ha bisogno di orgoglio, non di umiltà, l’umiltà è senza grinta. L’emigrante che sceglie di essere straniero in patria non è – non può – essere umile. L’emigrante è talmente orgoglioso che nel partire è contento non solo di stare lottando per la sua emancipazione e dignità, ma di lasciare lo spazio che toccava a lui ad altri meno orgogliosi, meno coraggiosi.
Solo vivendo le umiliazioni inflitte dalla vita o dagli altri, si può imparare l’umiltà. E’ questo il comandamento della nostra tradizione umanistico-cristiana. A fronte di questa esperienza si esce in due modi: i più scelgono la strada più facile che è quella di subire questo stato. E per tutta la vita rimarrà sottomesso, bullizzato dalle umiliazioni degli altri, più forti o più prepotenti. L’orgoglioso con le palle vorrà al più presto uscirne, perché mentre il pregiudizio impone che umile è chi ha le ali, ma cammina, mentre l’orgoglioso disdegna chi è un’ Aquila che si crede un pollo. Disdegna, non giudica. L’umile giudica con un solo parametro: la conformità perché se alzi la testa e sei povero, ti taglieranno i cabbasisi.
L’orgoglioso con le palle sa bene che anche sul più alto trono del mondo siamo sempre seduti sul nostro culo, come affermava Montaigne. Ma questo lo rende più ottimista, più determinato, più motivato alla realizzazione di sé che è il compito dell’uomo dato che – secondo Buddha – non puoi fare felici gli altri se prima non hai fatto felice te stesso.
Siamo tutti apprendisti in un mestiere dove non si diventa mai maestri.
Ma Ernest Hemingway non si riferiva certo agli umili a cui va bene di non apprendere, ma agli orgogliosi che sanno che per arrivare non bisogna cadere nella trappola dell’anomia, quel tipo di devianza che vuole i fini senza faticare sui mezzi: e così un umile che ambisce un’auto, la ruba, mentre il partannese orgoglioso (ce ne sono, ce ne sono) fatica e suda e soffre sui mezzi necessari a raggiungere lo scopo. L’orgoglioso con le palle è consapevole della propria inadeguatezza ad ogni nuovo scalino, dato che il gradino superiore richiede una maggiore preparazione e quello successivo ancora di più e così imparando ancora ogni volta di fronte a un nuovo scalino. Apprendere sempre è la sua filosofia di vita se non vuole tornare nell’abisso dell’umiltà, troppo affollato, troppo quieto, troppo paludoso. Quella palude di cui parlava Lenin. Chi ha le palle non è furbo, sa che la furbizia è solo una tattica e sa che per vincere una guerra ci vogliono strategie. E le strategie – a differenza delle tattiche che portano sempre a vittorie di Pirro – sono intelligenza. Perciò è consapevole della propria ignoranza e pronto a imparare da chiunque indipendentemente dalla sua qualifica. L’umile non può: perché giudica gli uomini dalla loro posizione sociale convinto che più uno è qualificato, più potrà essergli utile.
Forse sarebbe bene se tutti noi ricordassimo che, mentre differiamo per le poche, piccole cose che sappiamo, di fronte alla nostra infinita ignoranza siamo tutti uguali.
Vito Piazza


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